Il recente scoppio della pandemia di Covid-19 ci ha portato a riflettere sul nostro impatto sugli ecosistemi e sulla biodiversità.

16 Settembre 2020 di Ilaria Aceto

Gli ecosistemi svolgono diverse funzioni. Tra queste, una in particolare è fondamentale per la salute dell’uomo: quella di regolare la diffusione e la trasmissione delle malattie. Ma se una parte dell’ecosistema viene meno, anche questa sua capacità risulterà compromessa. Negli ultimi cinquant’anni, secondo quanto rivelato dal Living Planet Report 2020 emesso dal WWF,  il 68% delle specie di vertebrati monitorate è andato perduto. Ciò, lo capiamo bene, non può non aver minato la capacità degli ecosistemi di regolare la diffusione delle malattie virali.

Perciò, nonostante ad oggi l’origine del COVID-19 sia sconosciuta, è innegabile il ruolo svolto nella sua diffusione dallo sfruttamento della natura da parte dell’essere umano. Il (SARS-CoV-2), infatti, fa parte di un gruppo di virus, i Coronavirus, diffuso in moltissime specie animali, dagli uccelli all’uomo. Ma come fa un virus a passare da una specie all’altra? Tramite un fenomeno chiamato spillover (letteralmente “tracimazione”), che indica l’esatto momento di trasmissione di un patogeno.

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L’ipotesi più accreditata è che proprio lo spillover sia il responsabile dell’origine del nuovo coronavirus. Recenti studi, infatti, hanno dimostrato la somiglianza tra il SARS-CoV-2 e altri coronavirus presenti in alcune specie di pipistrelli. Si suppone dunque che il COVID-19 sia stato trasmesso agli esseri umani da una specie di pipistrello nella provincia cinese di Yunnan, forse attraverso il tramite di altre specie (non ancora identificate). Ma quando l’essere umano è entrato in contatto con tali specie? Probabilmente nei wet market (letteralmente “mercati bagnati”) dei grandi mercati all’aperto situati in diversi paesi asiatici, dove gli animali selvatici vengono commercializzati vivi e macellati in loco. Non è un caso che il primo focolaio di Covid-19 identificato sia stato proprio il wet market della città cinese di Wuhan.

Ma il commercio illegale di specie selvatiche, che mette l’essere umano in contatto con nuovi agenti patogeni, non è l’unica causa dello scoppio di pandemie, secondo il rapporto del WWF. Un ruolo rilevante è svolto anche dalla deforestazione e dalla conseguente nascita di habitat ideali per i virus emergenti. Durante i processi di deforestazione, per esempio, l’essere umano entra in contatto con territori incontaminati, e dunque anche con virus, batteri e funghi sconosciuti. Ciò è successo in passato, nel caso di patologie come febbre gialla, leishmaniosi o HIV, quando i virus presenti in alcune specie di scimmie che popolavano le foreste africane si sono adattate all’uomo. Inoltre, i nuovi spazi ricavati dalla deforestazione, come per esempio le periferie urbane di grandi metropoli, grazie anche al surriscaldamento globale costituiscono ambienti malsani ideali per malattie pericolose come la febbre dengue, il tifo, il colera, la chikungunya.

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Insomma, il nostro approccio nei confronti della natura deve cambiare, non si può basare solo su uno sfruttamento intensivo e non sostenibile delle risorse. Deve cambiare per la salute del nostro pianeta, degli animali che lo abitano, ma anche degli esseri umani. Anche perché siamo ancora in tempo per “piegare la curva della biodiversità terrestre”, come dimostra l’analisi del WWF. Lo abbiamo già dimostrato nel caso della protezione di singole specie, il cui numero è in aumento. Ne sono un esempio lo squalo pinna nera del reef, il castoro europeo, e il panda.

Ora, la protezione che abbiamo dedicato a queste specie va estesa a tutti gli animali, nell’ottica di una strategia integrata. Devono intervenire sia la politica globale sia il mondo imprenditoriale, per proteggere e ripristinare gli ecosistemi. Perché la salute umana dipende da quella della natura.

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